lunedì 22 marzo 2010

Il giornalino


L’impulso iniziale è quello di scrivere … c’era una volta, così come iniziavano le favole. Tuttavia non si tratta di una favola, e anche l’epoca non è poi così lontana da perdersi nella notte dei tempi o nei misteriosi sentieri della fantasia. Inizierò quindi con “c’è stata un’epoca”.
Sì, c’è stata un’epoca in cui le droghe erano solo le spezie che le nostre madri acquistavano dal droghiere , un’epoca in cui il “bullismo” era quasi sconosciuto e persino quello che si praticava nelle caserme consisteva, da parte dei “nonni” e cioè dei soldati di leva al termine del servizio militare, nel fare “il sacco” al lenzuolo del letto delle reclute o, nel peggiore dei casi, nel sottoporre i più riottosi ad un “gavettone” di acqua fresca. Era un’ epoca di sogni e di speranze: per i giovani il lavoro non era un mito e l’economia andava al galoppo.
Era un’epoca in cui il nostro Paese poteva andar fiero, non degli attuali pennivendoli, maestri di quello squallido pettegolezzo che si maschera dietro il barbarico termine di “gossip”, ma di giornalisti veri, di maestri della penna e dell’informazione come Giovanni Mosca, Oriana Fallaci, Corrado Alvaro, Luigi Barzini, Enzo Biagi, Dino Buzzati , Leo Longanesi, Mario Missiroli, Indro Montanelli e tanti, tanti altri.
Attiravano in particolare i caustici articoli che il geniale, e ormai purtroppo sconosciuto ai più, Augusto Guerriero, pubblicava settimanalmente su “Epoca” sotto lo pseudonimo di Ricciardetto. Era comunque un piacere leggere e entusiasmarsi alla prosa forbita e intelligente che sprizzava dalle pagine di giornali e riviste e che ci faceva vivere luoghi e situazioni strane e avventurose sapientemente narrate dagli “inviati speciali”.
Nacque così in me il desiderio, poi non realizzato, di fare il giornalista, ma come iniziare? Talvolta inviavo qualche articolo o qualche raccontino al “Travasetto”, alla “Domenica del Corriere” o ai “Romanzi di Urania”. Spesso mi pubblicavano, ed era una grande soddisfazione, ma non mi bastava. Mi venne l’idea di creare un giornalino scolastico da diffondere tra i miei compagni di Liceo. L’idea fu accolta con entusiasmo dai miei tre amici più cari, Angelo, Gianni e Lucio; ma quale nome dare al giornalino? E poi, come realizzarlo? Il nome fu presto trovato, era da poco uscita una nuova tecnica cinematografica panoramica: il cinemascope. Il nostro giornale voleva essere una panoramica sulla scuola? Ok, perfetto, lo chiamammo Scuolascope. Già da tempo avevo acquistato a rate una Olivelli lettera 22 e, sia pure picchiettando con sole due dita, avevo raggiunta una discreta velocità.
Dando fondo alle nostre magre “paghette” acquistammo diverse risme di carta e approntammo il primo esemplare. Per poterne fare un centinaio di copie utilizzammo il vecchio ciclostile della locale sede del PCI al quale avemmo accesso grazie all’aiuto del nostro compagno Diego, detto Popoff , che era l’unico comunista iscritto al partito della nostra classe.
Vendevamo il giornalino, peraltro con risultati non entusiasmanti, agli altri studenti del Liceo al prezzo di 10 lire e ignoravamo che persino una tale innocua attività dovesse essere sottoposta alle autorità e autorizzata da precise disposizioni di legge.
Uno dei nostri professori, quello di matematica, era il bravissimo professor Di Stefano: un uomo robusto, sulla cinquantina, dall’aspetto burbero e intransigente che nascondeva in realtà un cuore dolcissimo e paterno. Fu uno dei nostri primi sostenitori e contribuiva con ben 100 lire all’acquisto del nostro giornale.
Un giorno noi quattro, i cosiddetti direttori di “Scuolascope” fummo convocati ufficialmente in Questura con tanto di avviso recapitatoci per posta. In verità la cosa ci preoccupò non poco, tuttavia il giorno stabilito ci presentammo tutti insieme e, scherzosamente, salimmo le scale per recarci dal funzionario che ci aveva convocato, tenendo i polsi sovrapposti come se fossimo stati ammanettati.
Non sapevamo che la notizia di questa convocazione fosse già circolata in ambito scolastico, ma così era stato. Mentre salivamo quelle scale un vocione risuonò alle nostre spalle: “cosa ci fate qui?”. Sorpresi, ci girammo e vedemmo il professore De Stefano che, con faccia truce e aspetto rabbuiato, saliva le scale a quatro a quattro dietro di noi.
-“Buongiorno professore, noi siamo stati convocati…” e sventolammo gli avvisi ricevuti.
-“Date qui, e non vi muovete!” tuonò il professore, e strappatici i foglietti di mano salì borbottando le scale e, scostando con un semplice gesto della mano un poliziotto che cercava di fermarlo, spalancò la porta dell’ufficio dove eravamo stati convocati e la rinchiuse sbattendola.
A malapena sentimmo la voce sommessa e pigolante di qualcuno che, in tono di scusa cercava di giustificarsi, ma quella voce era soverchiata da quella del nostro professore che risuonava alta e forte come il rumoreggiare dei tuoni nei temporali primaverili. Non riuscivamo a comprendere tutto ma qualcosa ci giunse alle orecchie: “sei sempre stato un asino alle mie lezioni, ma io ti ho fatto diplomare lo stesso e speravo che saresti diventato un bravo questurino! Cerca di dare la caccia ai malviventi, ché ne abbiamo fin troppi , invece di intimorire e disturbare i miei allievi!”.
Seguì un concitato vociare in tono più attutito e non più comprensibile, infine il nostro professore uscì trionfante dall’ufficio e, passando davanti allo sbigottito poliziotto di guardia che si mise sull’attenti, ci mise una mano sulla spalla e … “Andate a casa ragazzi, tutto a posto, ma togliete dal giornalino l’indicazione del prezzo”.
Inutile dire che il nostro glorioso “Scuolascope” continuò la sua uscita per tutto l’anno scolastico, con gli ultimi numeri addirittura stampati in tipografia, ma questa … è un’altra storia.

sabato 5 settembre 2009

L'anatema di Tihuta



L’ANATEMA DI TIHUTA

L'impalamento era un antico metodo di messa a morte di una persona tramite tortura, consistente nell'infilzare il condannato con un palo di legno, per poi sollevarlo in posizione verticale fissando il palo nel terreno. Affinché entrasse con facilità nel corpo del condannato, la punta era spalmata di olio o miele, il punto di entrata poteva essere l'ano, la vagina oppure una parte bassa dell'addome, il punto di uscita poteva essere la bocca o una scapola. Se non erano lesi organi vitali, il supplizio poteva protrarsi per molti giorni, prima della morte. (Wikipedia)
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Tihuta A.D. 1463

Lo shaykh Hascim Ibn Jaber sospirò e si avvolse più strettamente nel suo aslham, utilizzando il cappuccio non tanto per difendersi dal gelo quanto per premerlo sul naso e sulla bocca per mitigare il tremendo fetore dell’aria.
Al suo fianco, pallido in volto, cavalcava il suo giovane figlio Mahmud reggendo alto lo stendardo con le insegne di messaggero del Sultano.
Solo cinque mamelucchi: tre circassi, un turco e un mongolo erano ancora in vita. L’iniziale scorta di dodici guerrieri aveva già perso sette uomini.
Nelle ultime miglia erano stati attaccati tre volte, Orde spettrali di straccioni bene armati erano sbucate di colpo dalla nebbia mefitica che avvolgeva le foreste circostanti e con urla bestiali avevano attaccato la scorta dello shaykh. Le scimitarre dei mamelucchi volteggiando mortali per l’aria avevano fatto strage di quella marmaglia che ogni volta, improvvisamente com’era comparsa, era velocemente svanita nel nulla.
- Padre, giungeremo mai vivi a Tihuta?-
- Manca poco, figlio, questi attacchi sono solo dimostrativi del disprezzo che Kaziglu Bey vuole dimostrare nei nostri confronti. Vedi, io e te non siamo stati attaccati, solo la nostra scorta. E Kaziglu Bey, qualora ci lamentassimo, cosa che certamente non faremo, ci farebbe torturare e uccidere subito e direbbe, offeso e sdegnato, che questi attacchi sono opera di banditi di strada, feccia senza divisa e senza insegne o addirittura sbandati e disertori delle nostre stesse truppe.-

I cavalli arrancavano faticosamente affrontando il ripido passo montano in quel gelido inverno del 1463; la nebbia, a tratti, nascondeva pietosamente come un sudario l’infinita distesa di pali che fiancheggiavano la strada, sui quali marcivano e si disfacevano i corpi di 12.000 guerrieri ottomani . Erano, per loro sfortuna, i sopravvissuti alla disfatta loro inflitta nella gola di Plenari dalle truppe di Vlad III° Drakul, il Voivoda di Valacchia tristemente noto a Costantinopoli come Kaziglu Bey, il principe impalatore.
In lontananza, quasi presagio di morte, incombeva minacciosa l’ombra nera dei Carpazi.

La fortezza di Tihuta era apparentemente piccola ma robusta. Una possente muraglia di pietra viva intervallata da quattro torrioni quadrati racchiudeva un vasto spiazzo centrale ove si ergeva un fabbricato rettangolare, merlato, alto una quindicina di metri. L’apparente semplicità della costruzione ingannava il visitatore poiché la vera estensione della fortezza era nel sottosuolo, ove si celavano le segrete e degli sconosciuti passaggi che si addentravano in oscure caverne.
Nella grande sala al piano terreno le torce lungo le pareti gettavano una fioca luce tremolante, ciocchi di pino resinoso e di abete ardevano nel camino e temperavano l’aria gelida e fumosa dell’ambiente. Il principe sedeva su di un robusto sedile di quercia dall’alta spalliera. I messaggeri, non appena giunti, s’inchinarono profondamente porgendogli la pergamena sigillata con il messaggio del Sultano Mehemet II° El Fatih.
Vlad ruppe lentamente i sigilli e lesse. Il suo volto si rabbuiò e i suoi occhi magnetici lanciarono fiammate d’odio sui due ambasciatori.

- Dunque – disse con voce bassa e sibilante – quel cane del vostro padrone, invece di implorare il mio perdono per il suo ignobile attacco nelle mie terre, pretende di impormi tributi quasi fossi un suo vassallo! E inoltre m’invia due miserabili servi che osano stare in mia presenza con il capo coperto!-
Il giovane Mahmud s’irrigidì e trascurando l’occhiata di avvertimento lanciatagli dal padre, alzò fieramente la testa e disse con voce alta e chiara:
- Mio signore, il nostro nobile lignaggio è antico e fuori discussione, e il nostro copricapo è il simbolo della nostra religione e mai e poi mai potremmo scoprirci di fronte a un infedele!-
Il principe sorrise e la sua voce divenne calda e suadente:
-Apprezzo il coraggio, quando lo vedo, e apprezzo la fede, quando la vedo. Credetemi quindi se vi dico che non voglio mai che perdiate quel prezioso turbante.-
Un ordine secco e imperioso. Subito le guardie portarono degli enormi chiodi usati per saldare le travi delle fortificazioni . Con un solo colpo di mazza li conficcarono nel cranio dello sventurato giovane che cadde al suolo senza un lamento.
-No, maledetto! Noo! – Abbandonata ogni esitazione lo shaykh Hascim si gettò ad abbracciare il cadavere del figlio e guardando il principe con furore puntò un dito contro di lui.
- Che tu, Kaziglu Bey, i tuoi figli e tutta la tua discendenza siate maledetti in eterno! Allah akbar, sia benedetto il suo nome, non lascerà impunito questo delitto e tu e tutta la tua razza infame farete una fine orrenda!-
-Non sia mai che un padre non segua la sorte del figlio- disse serenamente il principe, e fece un cenno alle guardie.
-Mio signore – sussurrò il comandante degli armigeri – dobbiamo ora impalarli su alti pali dorati come si conviene a dei nobili?-
-No, amico mio, gettate entrambi nel pozzo oscuro, poi tagliate le mani e la lingua alla loro scorta e gettate anch’essi, vivi, nel pozzo. Che tutti sappiano che i messaggeri del Sultano non sono mai giunti a Tihuta.-


Tihuta A.D. 1970 – novembre

La Direzione Generale per la Sicurezza delle Persone ( più comunemente chiamata Securitate), fu fondata ufficialmente il 30 AGOSTO 1948 in base alla Delibera 221/30 del Presidium della Grande Riunione Nazionale. Essa esisteva comunque già nei fatti, dall'agosto 1944 quando i comunisti cominciarono a infiltrarsi nel Ministero degli Affari Interni su grande scala. Il suo scopo ufficiale era: "Difendere le conquiste democratiche e garantire la sicurezza della Repubblica del Popolo Rumeno contro i nemici interni ed esterni".
La Securitate manipolava la popolazione del paese con dicerie, macchinazioni, costruzione di false prove, denuncie pubbliche, incoraggiamento al conflitto tra vari strati della popolazione, umiliazione pubblica di dissidenti, torture, inasprimento della censura e della repressione. Era, in proporzione alla popolazione della Romania una delle più grandi e più brutali polizie segrete del blocco orientale (stralcio da Wikipedia).
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Quando il tenente Janos Vieru giunse a Tihuta al volante della sua Renault 12, furono in molti a chiedersi chi diavolo fosse. Alto, massiccio, scuro di carnagione e con grossi baffi spioventi, l’uomo, benché esibisse modi bruschi e sprezzanti, non mancava di un certo fascino animalesco che attirò subito l’attenzione maliziosa di diverse donne. Appena arrivato, si recò dal borgomastro Sebastian Rebreanu che lo accolse inizialmente con diffidenza ma che si mise immediatamente a disposizione e si profuse in inchini ossequiosi non appena Janos mostrò il suo tesserino.
Rebrenau era, a sua volta, un uomo dalla corporatura possente. Era nato a Sibiu ove aveva lavorato nel Museo Bruckenthal e successivamente nella locale biblioteca storica. Dopo aver frequentato con successo i più importanti ambienti politici e culturali della città, improvvisamente, a soli ventotto anni, aveva abbandonato tutto e si era trasferito a Tihuta ove ormai risiedeva da oltre venticinque anni e dove, da diverso tempo, ricopriva il ruolo di borgomastro.
Rebreanu, ovviamente doveva la sua posizione anche al fatto di essere un fedele membro del partito, tuttavia sapeva bene che la politica di collettivizzazione delle fattorie era stata un totale fallimento sia a Tihuta sia nell’intera Romania; sapeva anche che la responsabilità dell’insuccesso sarebbe ricaduta su di lui e l’improvviso arrivo di Jonas Vieru, proveniente da Sighisoara lo aveva innervosito.

In breve tempo la notizia dell’arrivo di un funzionario della Securitate si diffuse nella zona e tutti si fecero vedere animati da una grande attività. I campi erano pieni di contadini apparentemente al lavoro anche se ben consapevoli che, a causa dello sfruttamento del terreno che era stato imposto dal governo, il raccolto da conferire alla cooperativa sarebbe stato ancor più misero dell’anno precedente.
L’abitazione del borgomastro, che fungeva anche da “casa del popolo”, era la più grande e la più elegante del villaggio e il furbo Rebreanu mise subito a disposizione del tenente Vieru la stanza più bella e confortevole. Aveva anche notato con soddisfazione come l’ospite avesse guardato con un certo interesse la propria moglie: la procace Jielena. Era certo che la donna sarebbe riuscita a scoprire quali fossero le intenzioni dell’ufficiale e cosa fosse venuto a fare in quella sperduta località.

Jielena, detta “Jielena la rossa” era una formosa quarantenne che dopo aver, in giovanissima età, abbondantemente “gustate” le attenzioni di buona parte della popolazione maschile di Tihuta, si era qualche anno dopo definitivamente sistemata sposando Rebreanu uomo più anziano di lei, ma facoltoso, e che rappresentava anche la massima autorità della zona.
Col passare dei giorni e delle settimane Il borgomastro non riuscì a conoscere che qualche insignificante particolare sulla missione di Vieru; il tenente era riservatissimo e non parlava mai del suo lavoro. Rebrenau sollecitò Jielena a essere più insistente e a cercare di ottenere informazioni a qualsiasi costo. Spesso, durante la notte, non trovava la moglie al suo fianco e sentiva rassicuranti grugniti e gridolini provenire dalla stanza dell’ospite. La donna, tuttavia, non riusciva a ottenere alcuna interessante notizia anche se la cosa non la turbava affatto perché il vigore del giovane tenente era di suo completo gradimento .

Il comportamento del funzionario della Securitate, che tanto innervosiva il borgomastro, stupì dapprima e rassicurò poi gli agricoltori e gli allevatori. Assolutamente disinteressato dell’economia della zona, il tenente usciva prestissimo e passava l’intera mattinata passeggiando nei boschi e, in particolare, nella foresta Ardeiele a nord ovest del paese. Chi lo incontrava, lo vedeva consultare misteriose carte conservate gelosamente in una valigetta nera.
Nessuno aveva il coraggio di informarlo che la foresta Ardeiele era un posto pericoloso, pauroso e maledetto. I vecchi narravano ancora delle antiche leggende secondo le quali le Iele di quel bosco erano particolarmente malevole e vendicative a causa di antiche offese subite dagli uomini.

Si raccontava come, centinaia di anni prima, valenti cavalieri magiari, penetrati nel folto degli alberi, fossero scomparsi per sempre; altri erano ricomparsi ma irrimediabilmente fuori di senno. I giovani sorridevano ascoltando i racconti dei nonni, tuttavia nessuno aveva mai pensato di infrangere la tradizione e i boscaioli si guardavano bene dal tagliare gli alberi di quel bosco.
Il vecchio Popescu, uno degli anziani del paese, che in gioventù era stato un valente taglialegna, non si era mai avventurato nel bosco Ardeiele e raccontava alla nipote Costelia che le iele, spiriti magici femminili di bellissimo aspetto, nelle notti di plenilunio danzavano nude in un circolo ed erano talmente potenti da bruciare il suolo, lasciando all’alba cerchi oscuri dove ricrescevano solo strane erbe e funghi velenosi.

Curiosa, com’era sempre stata, Jielena, dopo una notte eccezionalmente trascorsa al fianco del marito, scorse dalla finestra della sua stanza il tenente Janos che si allontanava senza la misteriosa valigetta e si precipitò a piedi nudi nell’alloggio dell’amante per ispezionare il contenuto. La sonnolenta calma di quel mattino fu improvvisamente infranta da rumori, grida e imprecazioni furiose che risvegliarono di colpo l’assonnato borgomastro.
Nel letto di Janos, nuda e ancora addormentata, Jielena aveva trovato Costelia Popescu la bruna e avvenente ragazza che spesso la aiutava nei lavori domestici. Con molta fatica Rebreanu riuscì a separare le due furie che continuavano a lottare ferocemente scambiandosi insulti.

- Vecchia puttana bastarda!-
- Troia schifosa, ti strapperò quegli occhi cisposi!-
- Basta! Piantatela donne, farete accorrere tutto il paese! Cos’è questa storia?-
- E’ questa baldracca vecchia di tua moglie che…-
Costelia non riuscì a terminare la frase, approfittando della pausa dovuta all’intervento del marito, la robusta Jielena l’aveva colpita con un preciso diretto al mento facendola crollare a terra svenuta.
- E’ una ladra, Sebastian. Avevo sentito dei rumori, sono entrata e l’ho scoperta mentre frugava tra le cose dell’ufficiale. Pensa in che guaio ci saremmo trovati se non me ne fossi accorta. Devi cacciarla subito e non farla tornare mai più!-
- Ah…ecco. Certo, certo. Ora capisco. Brava moglie mia... l’abbiamo scampata bella! – mormorò il borgomastro sogghignando tra di sé.
L’atteggiamento delle due donne e il loro succinto abbigliamento non lo avevano certo tratto in inganno, ma la scusa trovata dalla moglie gli faceva comodo. L’ultima cosa che avrebbe voluto era che si suscitasse uno scandalo. Il partito non era tenero su certe cose. Contemplò con interesse il corpo seminudo di Costelia, aiutò la moglie a rivestirla sommariamente e la depose su di una panca sul retro dell’abitazione in attesa che, ripresi i sensi, si allontanasse.

La notizia dell’accaduto dilagò comunque presto nel villaggio per misteriosi canali, e sicuramente giunse anche alle orecchie dell’ufficiale della Securitate. Del resto gli appariscenti graffi e le ecchimosi che costellavano il corpo di Costelia e quello di Jielena erano più che evidenti. Per diversi giorni la giovane Costelia restò rinchiusa nella propria casa con grande soddisfazione dell’ottuagenario nonno, unico parente rimastole, che finalmente si vide un po’accudito da quell’indisciplinata nipote che, di norma, in casa non c’era mai.
Passarono i giorni, lenti e sonnacchiosi, il tenente Vieru continuava a trascorrere le sue giornate nelle foreste ma per il borgomastro non era stata una settimana tranquilla, aveva origliato alla porta dell’ufficiale e aveva udito Jielena lamentarsi per il “tradimento”. Janos aveva risposto con voce secca e sibilante e alle rinnovate proteste della donna era seguito il rumore secco di uno schiaffo. Da allora gli “svaghi” notturni erano cessati e il preoccupato borgomastro aveva sempre trovato la moglie al suo fianco durante la notte.
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Vanitosa come tutte le ragazze, Costelia, prima di uscire da casa, aveva lasciato passare il tempo necessario affinché i graffi si rimarginassero e le lividure sbiadissero. La guarigione non era ancora completa, ma non ce la faceva più a restare tra quelle quattro mura sopportando malvolentieri i borbottii e le lamentele del nonno; quella mattina un pallido sole si era fatto largo tra le nuvole e le foglie degli alberi, imperlate di brina, rilucevano come diamanti. Costelia indossò uno dei suoi abiti migliori, si mise al collo l’unico gioiello che possedeva: una collana d’ambra, e uscì, dirigendosi verso il bosco e assaporando l’aria fresca e profumata.

Non sentì i passi dell’uomo, attutiti dalla terra morbida e dall’erba. Due robuste braccia la afferrarono da dietro e una bocca rovente si poggiò sul suo collo baciandolo e mordicchiandolo. Intimorita e nello stesso tempo compiaciuta, la ragazza si rigirò con un movimento felino.
- Ah, sei tu…-
- Chi credevi che fosse? Stavi aspettando qualcun altro?-
- Non sto aspettando nessuno, passeggiavo…-
- E ora hai trovato me. Vieni, dietro gli alberi c’è un bel posto con l’erba morbida…-
- Non ti far venire strane idee, sto solo passeggiando e ora torno a casa, e poi con te non ci voglio stare.-
- E invece ci devi stare, se non piace a te, piace a me. Vieni!-
- Sei scemo? Ho detto no!-
- Ma chi ti credi di essere, piccola troia, sei uscita tutta agghindata e forse non hai neanche le mutande.-
Con forza l’uomo la gettò tra i cespugli e le denudò il seno gettandosi sopra di lei. Infuriata, e veloce come una gatta, Costelia se lo scrollò di dosso e schizzò in piedi tentando di fuggire. Con uno scatto l’uomo le afferrò una caviglia trascinandola nuovamente in terra e, incombendo su di lei, cominciò a sbottonarsi i pantaloni. Teresia scalciò, violenta, colpendolo sui genitali. Con un grugnito di dolore e di furore lui si ripiegò un attimo su se stesso, poi la afferrò per la gola scuotendola come un fuscello e tempestandola di colpi violentissimi. Rimase qualche attimo a contemplare, ansimante, il corpo esanime della ragazza steso ai suoi piedi, poi se la caricò senza alcuno sforzo su una spalla e si addentrò nel bosco.
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L’aria era gelida e tirava un forte vento sibilante la mattina in cui il nonno di Costelia, traballando sulle gambe malferme, e livido di freddo e di ansia, bussò tremante alla porta del borgomastro.

- padron Sebastian, devi aiutarmi e chiamare la polizia: mia nipote Costelia è scomparsa da casa da due giorni, certamente le è successo qualcosa…-
- cosa vai farneticando, vecchio. Sicuramente si sarà fermata in casa di qualche amica, hai chiesto in giro?-
- no, no, padron Sebastian, è stata vista avviarsi verso la foresta Ardeiele e poi nessuno l’ha più veduta. Qui tu hai il telefono, devi chiamare in città e avvertire la polizia.-
-tranquillo vecchio, prima di scomodare la polizia dobbiamo essere sicuri di aver fatto tutto il possibile e di aver verificato che cosa sia successo. Ora torna a casa, disporrò delle ricerche e ti farò sapere io qualcosa.-

Jielena guardò preoccupata il marito, un fatto del genere non era mai accaduto e chiamare la polizia era l’ultima cosa che Sebastian desiderava. E poi, non avevano già in casa qualcuno meglio della polizia? Con molta precauzione il borgomastro informò dell’accaduto l’ufficiale della Securitate.
Janos Vieru fu secco e minaccioso:
-queste non sono cose che mi riguardano, borgomastro; io ho ben altri compiti da svolgere! Se non sapete fare il vostro mestiere, che è quello di controllare i vostri compaesani, dimettetevi. E non m’infastidite più con queste storie. Probabilmente quella puttanella si starà rigirando nel letto di qualche contadino o di qualche allevatore, oppure sarà andata in città a “fare la vita”.-
Innervosito e mortificato da quel discorso arrogante, il borgomastro convocò tre o quattro giovani del luogo per fare qualche veloce ricerca, tuttavia nessuno si addentrò veramente nel l’Ardeiele. Di Costelia non si trovò nessuna traccia e la furba Jielena, in accordo con il marito, sparse in giro la voce che la ragazza era stata vista passeggiare di notte per le strade della vicina città di Bistrita.

Tihuta A.D. 1970 – novembre

Teresia Szabó, nel fiorire dei suoi diciotto anni si avviava a diventare la più bella ragazza di Tihuta. Il padre era uno dei più facoltosi personaggi della zona e nella sua fattoria, oltre ad un allevamento di cavalli, possedeva anche una segheria. La festa per il genetliaco della figlia fu grandiosa e furono invitati tutti gli abitanti del borgo.

La Tuica (acquavite di prugne), scorreva a fiumi e decine di bottiglie di ottimo Traminer troneggiavano sulle lunghe tavolate ricolme di cibo. Il fuoco ardeva scoppiettando nel grande camino di pietra rossa mentre il suono delle fisarmoniche accompagnava le danze e i canti. Sul fare della notte, nonostante il gelo esterno, l’aria si era fatta fumosa e rovente e Teresia, stanca e accaldata, uscì nel cortile per rinfrancarsi.

Un uomo uscì lentamente a sua volta e si avvicinò sussurandole proposte oscene mentre i suoi occhi si soffermavano libidinosi sul seno perfetto della ragazza. Teresia, che sapeva trattarsi di una persona importante, non voleva procurare problemi alla propria famiglia e, benché piena di disgusto, finse di considerare scherzose le parole dell’uomo e cercò di allontanarsi lentamente e con un sorriso. Improvvisamente questi l’afferrò brutalmente, stringendole il seno in una morsa con una mano ferrea e sudaticcia mentre con l’altra le sollevava la veste. Impaurita e offesa Teresia si svincolò con un guizzo dalle mani dell’uomo e impulsivamente lo colpì con forza.
Fuggendo e rientrando di corsa tra gli invitati e tra i familiari, Teresia non ebbe modo di notare il lampo di odio feroce che stava attraversando gli occhi del suo aggressore.

I giorni passavano lenti e monotoni, la neve era caduta in abbondanza durante la notte ma quella mattina un timido sole attraversava con spade di luce la ragnatela delle nubi. Come amava talvolta fare, Teresia aveva sellato la sua cavallina preferita e si era avviata lungo il sentiero che costeggiava l’Ardeiele. La foresta era silenziosa in modo inquietante: non un canto di uccelli, non un fruscio di animali nel sottobosco.
Incuriosita Teresia scese da cavallo e si addentrò tra gli alberi. Con sorpresa si avvide che profonde impronte segnavano la neve fresca, poi ebbe la sensazione di una presenza alle sue spalle, ma mentre accennava a girarsi un violento colpo alla nuca le provocò un lampo accecante di luce e la fece cadere bocconi nella neve mentre le tenebre calavano fosche su di lei.
L’aggressore sollevò facilmente il corpo esanime della ragazza e scomparve tra gli alberi.

Riprendere coscienza fu lento e angosciante. Teresia non riusciva a rendersi conto di dove fosse e che cosa fosse successo. Cercò di portarsi le mani alla nuca ove avvertiva un forte dolore; stupita, si accorse di non poterlo fare e di avere le caviglie e i polsi strettamente legati. Gradualmente i suoi occhi si adattarono all’oscurità rotta soltanto da un lieve chiarore che proveniva da un foro nella volta.
Si rese conto di trovarsi distesa, circondata da sterpi e cumuli di detriti, sul suolo di una caverna della quale non riusciva a vedere le pareti. Affannosamente, strisciando e rotolando, cercò di avvicinarsi là ove quel sottile fascio di luce illuminava una strana massa informe.
Agghiacciata dal terrore, comprese che si trattava di un ammasso di scheletri, ancora avvolti nei brandelli marci di antiche vesti e parzialmente ricoperti dalla vegetazione. Piangendo si raggomitolò su se stessa e svenne nuovamente.

La cavallina aveva atteso a lungo dopo la scomparsa di Teresia, poi, lentamente aveva ripreso la strada di casa ed era rientrata nella propria stalla. Nessuno si era accorto che la ragazza fosse uscita all’alba e, per molte ore, nessuno l’aveva cercata. La sua insolita assenza destò, verso mezzogiorno, qualche inquietudine, ma solo verso sera l’inquietudine si trasformò in angoscia. Tutti i familiari, i lavoranti e i vicini furono impegnati in affannose ricerche. Uomini a cavallo setacciarono senza esito la zona, ostacolati anche dal freddo intenso e dalla neve che aveva ripreso a cadere copiosa e che aveva cancellato ogni possibile traccia.

Quando Teresia riprese i sensi, il sole era ormai alto nel cielo e la luce che filtrava dalla stretta apertura nella volta era più intensa. Una lama rugginosa, resti di un’antica scimitarra, sporgeva, incastrata fra due sassi sopra il cumulo di corpi scheletriti.
Affannosamente la ragazza vi appoggiò le corde che le legavano i polsi e cercò di tagliarle. Lentamente le corde si sfilacciarono mentre grosse scaglie di ruggine si staccavano dalla lama corrosa. Liberate le mani, e con le dita intorpidite dal freddo, Teresia faticò a lungo per sciogliere i legami delle caviglie; si sforzò infine di estrarre la scimitarra dai sassi per procurarsi una difesa, ma l’antica arma le si sbriciolò tra le mani provocando una piccola frana che fece cadere di lato i resti di quegli antichi guerrieri.

Stranamente intatto, per qualche misteriosa alchimia della natura, apparve il corpo di un vecchio ricoperto da ricche vesti consunte e scolorite e con il capo ancora rivestito da un maestoso turbante dal quale spuntava la testa arrugginita di un grosso chiodo. Il suo volto, incorniciato da una folta barba grigia, appariva tuttavia sereno e rassicurante. Teresia lo fissò a lungo, stordita. Poi, pervasa da un’inspiegabile calma, si allontanò barcollando per esplorare la sua prigione e cercare una via di fuga.

La penombra si faceva sempre più fitta e la ragazza individuò a stento una scalinata di pietra che si perdeva verso l’alto. La percorse con cautela e, a tastoni, scoprì una robusta botola sopra di sé. La spinse più e più volte con tutte le sue forze senza alcun risultato. Era sbarrata dall’esterno. Gridò disperata cercando aiuto, ma le rispose solo l’eco della sua voce. Nascose il viso tra le mani piangendo, poi scorse uno strano ramo che sembrava infisso nella parete. Lo afferrò e lo staccò facilmente dal muro; era un’antica torcia con la testa ancora intrisa di catrame.

Come tutte le brave massaie di Tihuta, Teresia serbava in una tasca una scatola di fiammiferi da cucina della quale si era completamente dimenticata. Freneticamente ne accese uno e lo accostò alla torcia che, dopo qualche frigolìo, prese fuoco spandendo intorno una calda luce dorata.
Parzialmente rasserenata, la ragazza cercò di esplorare la sua prigione. Si rese subito conto di trovarsi in una caverna naturale che era stata, in tempi antichi, modificata dall’uomo. Sotto il muschio e i detriti era ancora visibile una rozza pavimentazione, un tratto di una parete era stato spianato, e incastonato nel muro si vedeva ancora uno scudo di pietra recante, in rilievo, lo stemma di un drago.

In un angolo si apriva una scura apertura e avvicinandosi, Teresia percepì un tremendo fetore di morte. Coprendosi il naso e la bocca con un lembo della veste si addentrò in quel passaggio che scendeva verso il basso e che, dopo diversi metri, sfociava in una grotta più piccola.
Alla luce tremolante della fiaccola uno spettacolo orribile e macabro la fece inorridire e lanciare un urlo di terrore: il cadavere mutilato e in decomposizione di una giovane donna giaceva, scomposto e quasi nudo, sul suolo.
Con ribrezzo vide che il corpo della donna era infestato da larve biancastre e il suo volto era ormai irriconoscibile, tuttavia un particolare catturò la sua attenzione: una vistosa collana d’ambra dai riflessi dorati circondava il collo della morta.
La riconobbe; l’aveva donata lei stessa, l’anno precedente a una ragazza che aveva lavorato qualche tempo nella fattoria di suo padre. Il cadavere era quindi quello della scomparsa Costelia Popescu, la nipote del vecchio tagliaboschi.

Disperata, Teresia comprese di essere caduta tra le mani di uno sconosciuto feroce assassino e rifece, correndo, il percorso che la portava nella caverna principale esplorandone ogni anfratto. Nulla. Quella tetra prigione non sembrava avere alcuna praticabile via di fuga, e la massiccia botola che ne chiudeva l’ingresso sembrava inamovibile.
La spinse, tuttavia, e la percosse a lungo fin quando le mani non le sanguinarono, gridò, chiedendo aiuto, fino a perdere la voce, infine, esausta, ritornò vicino all’antico guerriero barbuto mentre la luce che scendeva dal foro nella volta, molti metri al di sopra di lei si faceva sempre più fioca col calare della sera.
Si prese il volto tra le mani e pianse a lungo, scossa da silenziosi singhiozzi. La torcia le era caduta di mano e si era spenta. La notte scese veloce, ingigantendo il silenzio che la circondava rotto soltanto, a tratti, dal vento che soffiava in alto, nella foresta, generando un sibilo lamentoso simile al lamento di un moribondo. Infine la stanchezza prevalse e Teresia si addormentò.

La famiglia Szabó non era certo disponibile ad accettare la sparizione della ragazza con la stessa rassegnazione del vecchio Popescu. Nelle ricerche, che si erano protratte anche durante la notte, erano state impiegate decine di persone che avevano scandagliato casolari, pozzi e anfratti e che avevano, senza alcun esito, interrogato anche gli abitanti delle più lontane e isolate fattorie nel raggio di una decina di chilometri.
La polizia di Bistrita era stata subito allertata telefonicamente ma padron Szabó, che, aveva scarsa fiducia in un loro tempestivo intervento, si recò all’alba a casa del borgomastro per parlare col tenente Vieru. Rebrenau fu irremovibile: l’ufficiale riposava e non poteva essere disturbato, avrebbe provveduto lui stesso a informarlo non appena possibile.
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Al sorgere del giorno Teresia si risvegliò da un sonno agitato e popolato d’incubi. Fiammate di dolore le attraversavano ancora il cranio, originate dal colpo che aveva ricevuto alla nuca. Trascorse l’intera giornata quasi inebetita, stremata dalla fame e dalla sete. Solo con qualche fiocco di neve che riusciva a filtrare dall’apertura nella volta riuscì ad alleviare la sua arsura. Il tempo passava inesorabile, lento, e la ragazza alternava momenti di lucidità a periodi di profondo torpore.
Mentre uno stato febbrile iniziava a indebolire il suo fisico duramente provato, ebbe una singolare allucinazione; l’antico anziano guerriero si era chinato su di lei e mentre con la mano sinistra le sfiorava il volto con una carezza simile a un alito di vento, con la destra le indicava la parete sulla quale si trovava lo scudo di pietra con il bassorilievo del drago.
Proveniente da un mondo e da un tempo lontano una parola s’infiltrava dolcemente nella sua mente dandole un senso di pace: “Coraggio”.

I vecchi hanno il sonno leggero, e a notte inoltrata un anziano contadino che abitava in un’isolata casupola lungo la stradina che da Tihuta portava al lago Colibita fu risvegliato da uno strano inconsueto rumore. Sembrava il rombo del motore di un’automobile accompagnato dal galoppare di un cavallo. Sorpreso, perché molto raramente, e mai di notte, transitavano autovetture su quella strada, si affacciò alla finestra, ma riuscì solo a intravedere la luce di due fari che si perdevano in lontananza dietro gli alberi.

Non era ancora spuntata l’alba del suo terzo giorno di prigionia quando Teresia fu improvvisamente destata dal sonno da uno scricchiolio e un tonfo sordo. La botola che dava accesso alla caverna era stata sollevata di colpo. Tenuamente illuminata dal chiarore di una splendida luna piena, una figura enorme e informe stava scendendo la scala ansimando e con passo pesante. Un attimo dopo la botola si richiuse e quella mostruosa apparizione scomparve nel passaggio che conduceva al cadavere di Costelia. Al respiro affannoso e sibilante si unirono dei gemiti sommessi, quasi rantoli soffocati.
Toltasi le scarpe per non fare alcun rumore, Teresia si precipitò ove sapeva essere la scalinata e cercò di sollevare la botola. I suoi sforzi furono ancora una volta vani: qualche sconosciuto meccanismo l’aveva nuovamente sigillata. Dal profondo dell’oscuro passaggio sorse un lieve chiarore. Qualcosa o qualcuno aveva acceso una lanterna all’interno della piccola grotta dell’orrore.
Un urlo straziante di dolore e di agonia rimbalzò tra le pareti della caverna e la ragazza, terrorizzata, si portò le mani alle orecchie trattenendo il respiro. Aveva compreso che quell’essere diabolico aveva trasportato una nuova vittima che stava ora torturando a morte. Affannosamente si riportò verso quel cumulo di resti umani che era stata la tomba dell’antico guerriero e scavò con le mani sperando di poter trovare qualcosa che le servisse come arma di difesa. Inutile tentativo: solo fragili ossa e stracci polverosi che si disfacevano tra le dita.
Ancora una volta, vivida come se fosse ancora presente, le tornò in mente l’immagine del sogno e l’imperiosa indicazione del vecchio. Irrazionalmente, sapendo di non avere scampo, ne eseguì il comando e si appoggiò allo scudo di pietra. Le mani, come sospinte da un impulso sovrannaturale, si aggrapparono alla testa del drago che cedette lievemente. Stupita, Teresia spinse con maggior forza. Uno scatto e la parete ruotò scoprendo una buia apertura e sospingendo la ragazza all’interno. Un altro scatto e la parete riprese silenziosamente la sua posizione. Attutiti dallo spessore del muro, giungevano a tratti agghiaccianti lamenti.

Con mani tremanti la giovane trasse dalla tasca la scatola di fiammiferi. Ne erano rimasti pochissimi e il primo che cercò di accendere si era inumidito e si sbriciolò. Il secondo fortunatamente si accese, illuminando con la sua fragile fiammella il cunicolo nel quale si trovava. Infissa nella parete vide, con gioia, un'altra torcia che prese subito fuoco scoppiettando e rivelando che Teresia si trovava in una stretta e tortuosa galleria della quale non si vedeva la fine. Ancora incredula di essere riuscita a sfuggire alla sua lugubre prigione la ragazza accelerò il passo, incurante delle ferite che le pietre aguzze procuravano ai suoi piedi nudi. Con sollievo scoprì che, a tratti, altre torce sporgevano dalle pareti e ne raccolse qualcuna.

Il terreno era in lieve pendio e il suolo roccioso era frequentato da strani insetti biancastri che non avevano mai visto la luce del sole. Teresia corse e corse per un tempo che le sembrò infinito, l’aria era umida, tiepida e dall’odore stantio di muschio marcito. La stanchezza prese il sopravvento sull’eccitazione, il passo si fece sempre più lento e pesante fin quando la ragazza cadde a terra sfinita e perse i sensi.

I familiari della ragazza erano confusi e disperati, la loro bellissima figlia sembrava svanita nel nulla e nessuno era stato in grado di fornire la minima traccia. Come padron Szabò temeva, nessun agente della polizia di Bistrita si era fatto vedere nel borgo. Furente e angosciato si precipitò nuovamente a casa del borgomastro, assolutamente determinato a parlare personalmente con l’ufficiale della Securitate per chiedere un suo autorevole intervento.

- Mio marito non c’è- Lo accolse l’ancora assonnata Jielena – E’ da ieri che si è allontanato per cercare personalmente tua figlia e non è ancora rientrato.-
- Ti ringrazio Jielena, comunque non volevo parlare con lui, devo assolutamente vedere il tenente Vieru. Dov’è?-
- Credo stia ancora riposando, meglio non disturbarlo…-
- Me ne fotto del suo riposo! Dov’è la sua stanza? – gridò esasperato afferrando la donna per le braccia.
Intimorita, Jielena fece un cenno. Padron Szabò spalancò di colpo la porta della stanza che gli era stata indicata e rimase attonito sulla soglia: la stanza era vuota.
Jielena entrò a sua volta. – Se n’è andato… - disse, stupita. Aprì i cassetti e l’armadio. Vuoti. Della presenza dell’ufficiale non era rimasta alcuna traccia.
- Non è possibile…non è possibile – mormorò sconvolta – non può essere andato via così… senza un saluto… senza… aspetta, dietro la casa ci dev’essere la sua auto…andiamo! –
Si precipitarono entrambi sul retro dell’edificio. Solo una minuscola macchia d’olio sul terreno testimoniava che in quel posto, fino al giorno precedente, era stata parcheggiata un’automobile.

Bucarest A.D. 1970 – novembre

Quando il generale comandante delle forze di polizia fu convocato con urgenza dal ministro dell’interno, si chiese con preoccupazione quale altra grossa “grana” fosse in arrivo. Il ministro fu invece affabile e cordiale e gli chiese chi fosse, a suo parere, il più esperto e fidato investigatore in servizio.

- Sicuramente il commissario Holmes, eccellenza – affermò il generale.
- Sherlock Holmes?- sorrise il ministro
- Ahahah, eccellenza, non Sherlock bensì Stefan Holmes. Sì, i suoi antenati erano probabilmente stranieri, ma è uno dei nostri migliori ufficiali ed è quello che ha risolto il caso di Verescu, quel serial killer detto “l’uomo col martello”, assicurandolo alla giustizia.-
- Dove presta servizio in questo momento? –
- A Cluj- Napoca. -
- Ottimo. E’ persona fidata e discreta?-
- Assolutamente, eccellenza, ne rispondo personalmente. –
- Mi auguro che sia così, generale, il caso è molto riservato e interessa personalmente il Presidente. Ora la informerò dei particolari e le consegnerò una busta sigillata con delle informazioni confidenziali che dovrà essere consegnata al vostro commissario. Dia anche disposizione che gli sia fornita qualsiasi cosa di cui possa avere bisogno. –

La conversazione proseguì per circa mezz’ora durante la quale il ministro informò il generale di ogni particolare.
Una cordiale stretta di mano concluse l’incontro.
Telefonicamente il generale ordinò che fosse subito approntato il suo elicottero personale e poche ore dopo si trovava già presso il comando della polizia di Cluj-Napoca a colloquio con il commissario Holmes.

- Agli ordini, signor generale. –
- Si metta comodo commissario. Ci conosciamo da qualche tempo e lei ha la mia stima e fiducia. Il caso che le affido proviene dal Presidente in persona e dovrà essere risolto con cautela e discrezione perché riguarda la scomparsa di un ufficiale della Securitate, inviato in missione a Tihuta, che da due giorni ha interrotto il rapporto giornaliero che inviava via radio al proprio comando.
- Signor generale, non può trattarsi di un guasto alle apparecchiature? –
- No, in questo caso, secondo le disposizioni ricevute, avrebbe dovuto subito avvertire telefonicamente il comando; inoltre, sono stato informato dalla polizia di Bistrita che in quella zona sono già sparite altre persone.
- Se non sono indiscreto, signor generale, potrei conoscere la natura di quella missione? Sono anche perplesso, come mai non se ne interessa direttamente la Securitate, trattandosi di un proprio ufficiale? –
- Commissario, molte informazioni le troverà in questa busta che le consegno da parte del ministro. Quello che invece le dirò adesso è strettamente confidenziale e deve restare tra di noi. La Securitate non è stata incaricata di fare indagini per due motivi: il primo è che questo ufficiale, il tenente Janos Vieru, non ha fino ad ora prodotto alcun risultato, il secondo è che il nostro Presidente comincia ad avere qualche dubbio sulle capacità e sulla fedeltà al Governo del generale comandante della Securitate Ion Mihai Pacepa. -
- Grazie generale. Comprendo la delicatezza delle informazioni che mi ha fornito. Immagino che troverò nella busta i particolari della missione? –
- Non proprio commissario. Nella busta troverà copia di tutti i documenti consegnati in una valigetta al tenente Vieru: antiche mappe, relazioni, descrizioni di località e di combattimenti, rapporti riservati antichi e recenti, ma non lo scopo della missione. –
- Comprendo, però avrò qualche difficoltà a… -
- No, non può capire commissario. Il nostro è un antico paese dalla storia complicata. Siamo divenuti una nazione solo nel 1877; siamo stati, nei secoli, spezzettati, invasi e sottomessi da Turchi, Ungheresi, Tedeschi e Austriaci.
Il Presidente ha giustamente ritenuto che avessimo bisogno di un eroe, un simbolo che possa rafforzare l’identità nazionale e l’orgoglio del paese. Ogni Stato ha glorificato e portato come esempio un proprio condottiero: gli Stati Uniti hanno George Washington e Abramo Lincoln, la Francia ha Napoleone, l’Italia, Garibaldi. Noi siamo conosciuti dalle varie popolazioni per l’assurda e fantasiosa narrazione di un romanziere: Bram Stoker con il suo Conte Drakula e la leggenda dei vampiri. In realtà questo Drakula non è altro che il nostro Vlad III°, Principe di Valacchia e cavaliere del Sacro Ordine del Dragone.
Il Presidente vuole che questo Principe sia conosciuto, rivalutato e divenga il nostro eroe nazionale: il vittorioso difensore dell’occidente contro lo strapotere dell’Impero Ottomano. A tale scopo è necessario ritrovare la sua fortezza, o quanto ne rimane, che sicuramente si trova al passo di Tihuta. Con la speranza di ritrovare in essa antichi documenti, per fornirci ulteriori utili elementi sulle battaglie e le vittorie del Principe.-
- Ora è tutto chiaro, signor generale. Partirò subito. Naturalmente mi occorre un furgone attrezzato, dei tecnici e del personale esperto in vari settori. –
- Lei ha carta bianca commissario. Avrà tutto ciò che le sarà necessario.

Tihuta A.D. 1970 – fine novembre

L’arrivo a Tihuta di due autocaravan, quattro motociclisti e un furgone, carichi di uomini in divisa della polizia e di specialisti fu, in quest’occasione, accolto con sollievo dalla popolazione spaventata e preoccupata per gli ultimi avvenimenti. Dimenticata l’abituale diffidenza, la gente accolse i poliziotti con la massima cordialità. Padron Szabò lieto e sorpreso per quell’inatteso schieramento di forze, mise la sua casa a disposizione degli agenti la cui presenza era ufficialmente motivata dalla ricerca di Teresia.

Per prima cosa il commissario Holmes incaricò un ispettore di convocare tutti i capifamiglia a casa Szabò per interrogarli e ottenere ogni possibile informazione. Furono fatti intervenire anche il borgomastro con la moglie Jielena. In realtà Holmes, coadiuvato da due agenti e dal suo fidato ispettore Marcos, voleva perquisire con la massima attenzione tutta la casa ove aveva soggiornato il tenente Vieru senza che nessuno lo sapesse.
Naturalmente iniziò dalla stanza del tenente per poi setacciare ogni angolo della casa. Gli agenti avevano avuto disposizione severissima di rimettere accuratamente ogni cosa al proprio posto perché nessuno doveva accorgersi dell’avvenuta perquisizione. In fondo a un ripostiglio, ripieno di vari attrezzi di lavoro, l’ispettore Marcos trovò un paio di scarponi. Li esaminò attentamente e, con delicatezza, raccolse in diverse buste frammenti di terra, erba e sostanze di vario genere.
Holmes, nel frattempo, esaminava pensoso un antichissimo mobile. Era un pezzo raro, da collezionista, vecchio di qualche centinaio di anni, ricco di fregi e modanature, dotato di un piano di scrittura e di numerosi cassetti che controllò accuratamente. Non contenevano nulla d’interessante. Il commissario sorrise, era un appassionato di oggetti di antiquariato e ne conosceva diversi trucchi. Passò con delicatezza la mano sulle modanature, ruotò un ornamento: uno scatto, e si aprì uno scomparto segreto. Conteneva una cartellina ricolma di documenti; li fotografò attentamente uno per uno e li rimise al proprio posto. Terminata la ricerca, ogni reperto fu consegnato ai tecnici del furgone che conteneva un laboratorio perfettamente attrezzato.

L’interrogatorio dei capifamiglia non portò alcun elemento utile. I vecchi incolpavano dell’accaduto le Iele dei boschi e i giovani si limitavano a parlare delle inutili ricerche fatte. Due o tre di loro si guardavano di sottecchi dandosi di gomito: l’improvvisa e inaspettata partenza dell’ufficiale della Securitate, cui le donne piacevano, e molto, sembrava una possibile dimostrazione di colpevolezza, nessuno tuttavia aveva il coraggio di esternare i suoi dubbi alla polizia. L’unico fattore di qualche interesse fu la narrazione di un vecchio che parlò del transito notturno di un’auto e forse anche di un cavallo, lungo la strada verso il lago. I giovani del villaggio ridacchiarono; il vecchio era noto per le sue fantasie e per l’attaccamento alla bottiglia; nessuno sano di mente avrebbe percorso in auto, di notte, quella stradina tortuosa e pericolosa Non volendo trascurare alcun particolare un ispettore ordinò a due agenti motociclisti di compiere a bassa velocità lo stesso percorso e di esaminare ogni possibile traccia.
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Quando Teresia si riprese dal deliquio, era ormai in preda ad una febbre altissima. Aprì a stento gli occhi con la mente annebbiata, non ricordava quasi più cosa fosse accaduto e dove si trovasse. Il dolore alla testa si era fatto pulsante e insopportabile. Intorno c’era l’oscurità più fitta; con fatica e sofferenza si alzò, senza neppure accorgersi delle pietre aguzze che torturavano i suoi piedi già piagati. Da quasi quattro giorni era priva di acqua e di cibo e le sue vesti, ormai lacere, erano lorde di escrementi e di urina.
Istintivamente, inciampando e trascinandosi a volte carponi, si diresse verso una parvenza di luce che appariva in lontananza. Quella luminosità, che traspariva tra alcunii cespugli, si fece sempre più chiara. Un ultimo sforzo e mentre gli sterpi le graffiavano il viso si trovò improvvisamente all’aperto, ai margini di un bosco.

Il vecchio era molto nervoso; gli sbeffeggiamenti e l’incredulità dei giovani lo avevano offeso profondamente, inoltre riteneva di aver fornito alla polizia delle notizie inutili e incontrollabili e che forse sarebbe stato punito per questo. Stava per varcare la soglia di casa quando percepì con la coda dell’occhio un movimento lontano che lo incuriosì. Una visione femminile dall’aspetto devastato, ma ancora splendida nella sua giovanile bellezza, avanzava vacillando verso di lui.
Terrorizzato, il vecchio si precipitò in casa.

- Marika, Marika, aiuto, siamo perduti! Dal bosco stanno uscendo le iele e stanno venendo qui! –
- Ma che dici babbo? Sempre con queste tue fantasie… -
Marika, una robusta contadina di una cinquantina d’anni, si affacciò all’uscio e si portò le mani al viso.
- Madonna Santissima! Ma quella povera creatura sta male… -
Teresia era caduta in terra sfinita. Marika accorse, la prese in braccio e l’adagiò sul suo letto.
- Presto babbo, presto! Ma quali iele, questa è quasi una bambina che si sarà smarrita! Dio mio, come scotta. Portami subito dell’acqua calda e dei panni puliti, corri!
Con dolcezza la donna deterse il viso e le mani di Teresia, vide i piedi piagati e le labbra screpolate e scosse la testa.
- Questa bimba non beve da chissà quanto tempo, portami dell’acqua fresca Pa’. –
Con una pezzuola bagnata Marika versò qualche goccia tra le labbra della ragazza, poi guardò il padre che, istupidito stava ai piedi del letto e lo scacciò.
- Esci, Pa’ e chiudi la porta –
Con grande attenzione tolse le vesti alla ragazza e le gettò in un angolo, poi, dopo averne deterso il corpo e fasciate le ferite, la depose tra lenzuola fresche di bucato e odorose di spigo.
Lentamente Teresia riaprì gli occhi.
- Chi sei bimba mia, come ti chiami? –
Teresia fissò quel volto materno e sorrise, poi abbassò le palpebre e cadde in un sonno profondo.

La foresta Ardeiele

Quella mattina il vento era cessato e la pioggia cadeva lenta e pesante trasformando la neve in fanghiglia. Holmes si era alzato all’alba dallo scomodo lettuccio dentro il furgone, infreddolito e dolorante. Le fotografie dei documenti trovati nel cassetto segreto erano già state sviluppate e le stava controllando da quasi due ore.
L’ispettore Marcos entrò sorridendo scuotendosi l’acqua da dosso.

- I tecnici hanno lavorato tutta la notte, commissario, le analisi sono pronte! –
- E allora? –
- Allora, il terriccio trovato negli scarponi non ci dice nulla, è quello comune in tutta la zona, però conteneva tracce di sangue; e si tratta di sangue umano! –
- C’è altro? –
- Sì, ed è la cosa più interessante, c’era anche una larva di Calliphora Vicina, un insetto necrofago che si nutre di cadaveri e i resti di una Bathynella, un minuscolo vermiciattolo che vive solo nelle caverne.-
- Molto bene. Ci siamo! Chi hai incaricato della sorveglianza?-
- Quattro dei miei uomini migliori, stia tranquillo commissario, non può sfuggirci. –
- Bravo Marcos, adesso ascoltami bene: il posto si trova nell’Ardeiele, le indicazioni di questi documenti sono abbastanza precise e mi hanno consentito di localizzare una zona entro il raggio di un chilometro. Quanti uomini disponibili abbiamo? –
- Otto, commissario. –
- Pochi, ma ce li faremo bastare. Su questa cartina ho indicato le coordinate e il perimetro della zona da sorvegliare. Ordina che gli uomini si muovano in silenzio e con la massima circospezione, ho motivo di credere che nella zona possano esserci antiche trappole molto pericolose. Dovranno indossare le tute mimetiche e appostarsi in modo da essere invisibili. -
- Sarà fatto. Agli ordini. –

La giornata trascorse tranquilla. La pioggia era cessata e verso sera una nevicata leggera riprese stancamente a cadere sulla fanghiglia ghiacciata. Il sole era tramontato e alle prime ombre della notte se ne aggiunse un'altra che, silenziosamente, scivolava come un fantasma lungo i muri. Altri quattro fantasmi, dotati di visori notturni, ne seguivano attentamente il cammino.

L’Ardeiele li accolse con un fruscio sommesso di fronde simile a un lamento. Una sbiadita luna faceva, a tratti, capolino tra le poche nubi e illuminava una figura massiccia che si muoveva circospetta ma decisa. Comparvero i ruderi corrosi e ricoperti di muschio di un’antica costruzione; nascosto tra la neve e gli sterpi un massiccio anello di ferro, solo parzialmente indebolito dalla ruggine, venne fatto ruotare due volte. Con uno strappo l’uomo sollevò una pesante botola che ricadde con un tonfo.

- Alt, non ti muovere! Polizia-

Con un sobbalzo e con gli occhi iniettati di sangue l’uomo percepì, più che vedere, diverse ombre convergere su di lui. Uno scatto fulmineo e si gettò tra gli alberi correndo disperatamente. Altre ombre comparvero alla sua destra intimandogli di fermarsi. Smarrito, cambiò direzione. Il sangue gli pulsava nelle tempie e con lo sguardo annebbiato gli sembrava che gli alberi lo deridessero, ostacolandolo, e che la foresta lo imprigionasse.
Improvvisamente il terreno si aprì sotto di lui. Precipitò. Seguì un agghiacciante urlo di agonia.
Muovendosi con cautela, i poliziotti illuminarono con le torce elettriche il pozzo nel quale era sprofondato l’uomo.
L’antica trappola aveva ottenuto ancora una volta la sua vittima. Un robusto palo aguzzo, ben fissato nel fondo, aveva trapassato il corpo dell’uomo fuoriuscendo dalla nuca. Agonizzante, il borgomastro aprì la bocca per dire qualcosa, ma ne uscì solo un fiotto di sangue e la luce si spense nei suoi occhi.

Cluj-Napoca A.D. 1970 - 8 dicembre

- Complimenti commissario, ho letto accuratamente il suo rapporto. Ha fatto uno splendido lavoro; il Ministro ha avuto i documenti e le informazioni di cui aveva bisogno anche se, vistone il contenuto, il Presidente dovrà rinunziare alle sue idee sull’eroe nazionale. Sono curioso, però, e ho qualche domanda da farle. Vuole intanto raccontarmi, con parole sue, com’è riuscito a risolvere così rapidamente il caso?-
- La ringrazio signor generale. Ebbene, prima di recarmi a Tihuta avevo raccolto ogni possibile informazione sia sul povero tenente Vieru che sembrava il principale sospettato, sia su diversi personaggi del posto, compreso il borgomastro. Del tenente Vieru avevo appreso che si era, in passato, defilato dal partecipare a certi interrogatori un po’, mi perdoni, cruenti, che venivano effettuati dalla Securitate.
Sembrava quindi un uomo poco incline alla violenza.
Del borgomastro mi aveva insospettito la sua improvvisa e immotivata partenza da Sibiu, molti anni fa, e il fatto che alcuni anni dopo si fosse scoperto che, dall’archivio della locale biblioteca storica, mancavano degli antichi documenti sul Voivoda Vlad III°.
Dalle carte occultate in casa del borgomastro appresi una notizia sensazionale: questi aveva effettuato, in gioventù, accurate ricerche sui suoi antenati e aveva accertato di essere un discendente diretto di Kinher “il malvagio” che era uno dei due figli nati dal matrimonio del principe Vlad con Ilona Szilagy. Tra i documenti trafugati nella biblioteca aveva inoltre trovate precise indicazioni sulla posizione della fortezza del suo antenato nell’Ardeiele di Tihuta.
- Ma perché si trasferì a Tihuta?-
- Signor generale, probabilmente voleva ritrovare la fortezza del suo antenato e forse altri documenti. Sicuramente riteneva suo diritto essere il Voivoda della Valacchia o quanto meno di Tihuta. Scoprì, grazie ai documenti trafugati, le antiche rovine e il sotterraneo ricavato nella caverna, poi divenne borgomastro e questo, in un certo senso, lo accontentò.
L’arrivo del tenente lo fece profondamente irritare, comprese quasi subito, vedendo le sue ricerche nella foresta Ardeiele, che gli era stata affidata la missione di ritrovare l’antica roccaforte del suo avo che lui, invece, considerava sua proprietà personale. Poi si rese conto che le informazioni in possesso dell’ufficiale erano forse frammentarie e insufficienti e che probabilmente non sarebbe mai riuscito a individuare le rovine.-
- E allora…perché l’ha ucciso?-
- Perché aveva precedentemente già violentata e uccisa la giovane Costelia che probabilmente gli si era rifiutata; perché aveva programmato lo stesso trattamento per l’altra ragazza: Teresia; perché aveva scoperto che violentare, torturare e massacrare gli procurava un immenso piacere e inoltre voleva che della loro scomparsa venisse incolpato proprio il tenente verso il quale nutriva ormai un odio profondo per i modi sprezzanti e arroganti con cui era stato trattato.
Il suo piano era semplice e avrebbe potuto avere successo. Aveva tramortito l’ufficiale e lo aveva trascinato di notte nella caverna ove lo aveva torturato a morte. In gran fretta, poi, era rientrato in casa, aveva legato un cavallo all’auto del tenente Vieru, si era messo al volante e l’aveva inabissata in un punto quasi inaccessibile del lago Colibita dove i miei uomini ne hanno trovate le tracce e l’hanno recuperata.
Successivamente Sebastian Rebrenau era montato a cavallo tornando a casa verso l’alba, giustificando la sua assenza con una sua personale ricerca della ragazza scomparsa. Se il nostro intervento non fosse stato così tempestivo, in pochi giorni la neve e la pioggia avrebbero fatto scomparire ogni traccia dell’auto, e si sarebbe pensato che il tenente Vieru si fosse rifugiato all’estero dopo aver rapito e forse uccisa la giovane Teresia Szabò.
- C’è ancora un particolare che non mi è chiaro, come mai Rebrenau non ha violentato e uccisa subito la Szabò e perché è ritornato ai ruderi della fortezza con il rischio di farsi scoprire come infatti è avvenuto?-
- Generale, ricorda il caso di Verescu, quell’assassino psicopatico?
- Certamente, ed è stato proprio lei a risolverlo, commissario.
- Verescu era un uomo gentile, addirittura timido, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che una persona simile potesse aver rapito, stuprato e massacrato decine di donne. Eppure il criminale sadismo di quell’individuo godeva essenzialmente nel vedere il terrore e l’orrore delle sue vittime. Non avrebbe mai fatto nulla fin quando queste fossero state in una situazione di incoscienza che l’avrebbe privato del suo principale piacere.
I nostri esperti ritengono che Rebrenau sia stato un sadico “latente”, la cui follia si è scatenata in una forma schizofrenica convincendosi, forse, di essere una specie di reincarnazione dei suoi antenati.
Da parte mia ero abbastanza sicuro che il borgomastro sarebbe tornato nella caverna per completare la sua opera. Era infatti plausibile che, per la fretta di occultare l’auto del tenente Vieru, non si fosse reso conto che la ragazza potesse essersi liberata e che fosse fuggita. Del resto non poteva essere a conoscenza di quel passaggio segreto, altrimenti non avrebbe lasciato mai in vita la sua vittima. -
- Che orrore! Quella ragazza,Teresia Szabò, ora sta bene?
- Fortunatamente sì, signor generale, ha avuto tutte le cure necessarie e dopo una quindicina di giorni si è ripresa completamente ed è tornata in famiglia.
- Commissario, mi è stato riferito che la ragazza ha raccontato che in quella grotta c’era il cadavere, forse mummificato, ma ancora intatto, di un antico ottomano. Potrebbe essere, come narrano i documenti dell’epoca, uno degli ambasciatori del Sultano. Sono state prese delle fotografie? E che fine ha fatto quel corpo? Nel suo rapporto non ne trovo traccia…
- Non saprei che dire, signor generale. Abbiamo, sì, trovati i mucchi di ossa delle vittime che Vlad III° faceva gettare in quel buco nel terreno, ma di questo fantomatico messaggero non c’era alcuna traccia. Un’allucinazione di quella povera ragazza? Non lo so. Ricorda come diceva Shakespeare? : “ci sono più cose in cielo e in terra Orazio…”-
-di quante ne sogni la tua filosofia – concluse il generale con un sorriso – Sì, commissario, ricordo bene!-

venerdì 3 aprile 2009

LA PATTINATRICE DI SHENKLEY PARK


Il mio vecchio amico Conte Engel Von Waldreihausen mi ha raccontato un'altro dei misteriosi avvenimenti accaduti durante i suoi avventurosi viaggi.

PERCHE' ?

La vita può apparire monotona e povera di nuovi eventi solo agli occhi di chi è tanto insensibile o idiota da non riuscire a guardarla con la giusta attenzione. L'ignoto, l'imprevisto e l'inconoscibile sono sempre dietro l'angolo, pronti a manifestarsi dinanzi a noi senza che - il più delle volte - non ce ne rendiamo neanche conto.
Nei momenti di noia, di scoramento o di semplice cattivo umore, l'episodio della pattinatrice di Shenkley Park mi riporta in mente ad un periodo estremamente stimolante della mia vita, alle persone che ne fecero parte ed al mistero che vi penetrò bruscamente ed in modo duraturo.
Trascorrevo, molti anni fa, alcuni mesi a Pittsburgh, in Pennsylvania, per seguire un corso post-universitario di gestione aziendale presso una prestigiosa, anche se non proprio antica, Università colà fondata alla fine del secolo scorso da due facoltosi uomini di affari passati alla storia del loro Stato, se non anche del loro Paese. La mia buona conoscenza dell'inglese, unitamente alla discreta preparazione di stampo matematico e statistico che mi ero fatta all'inizio del mio rapporto lavorativo presso il Dipartimento di ricerche dell'Istituzione presso cui ancora lavoravo, erano stati i motivi di base della scelta del mio nominativo fra quelli dei numerosi altri colleghi che avrebbero potuto esservi inviati. Non che vi fossero potenziali limiti di numero da parte dell'Università o del mio datore di lavoro; il problema era che, per motivi diversi e non più interessanti per alcuno, il tempo della designazione stringeva e non consentiva di fare una selezione dei possibili candidati a quello che era considerato una carta in più ai fini della futura carriera in seno all'Istituzione stessa.
Ovviamente avevo accettato con curiosità e quasi come una sfida l’incarico affidatomi, soprattutto perché un caro Amico e Collega che aveva partecipato al Corso l'anno precedente mi aveva descritto come "massacrante" l'impegno che esso richiedeva.
E aveva perfettamente ragione, anche se, per molti altri aspetti, esso si rivelò talmente interessante e coinvolgente da non farmi quasi accorgere delle nottate quasi in bianco trascorse sui libri, delle serate passate davanti al terminale del sistema elaborativo od in accalorate riunioni del gruppo di lavoro in cui ero stato inserito.
Le lezioni impegnavano sei giorni su sette, ma per motivi d’igiene mentale avevo deciso che le mie domeniche non dovessero essere riservate al riposo "riparatore" del sonno perso durante gli altri giorni, bensì all'evasione e alla ricognizione delle attrattive che la città potesse riservare. Era divenuta quindi mia buona abitudine uscire di buon mattino dall'albergo - non lontano dall'Università - per scendere "downtown" in città ed aggirarmi fra punti noti e meno noti di riferimento al fine di "capire" questi americani, così strani agli occhi di noi europei.
Qualche volta, bisognoso di relax e di movimento, mi recavo a passeggiare nello Shenkley Park, prossimo al "campus" universitario, a godermi i colori dell'inverso, il lindore della neve fresca e l'osservazione degli scoiattolini chipmunk che guizzavano agilmente fra i rami.
Fu una di quelle volte, che mi accadde di vedere qualcosa il cui ricordo permane ancora vivido nei miei occhi, oltre che nella mia memoria.
Sullo specchio d'acqua gelato prospiciente una fontana ornamentale - un laghetto di pochi metri di diametro - una bambina bionda, coi capelli raccolti in una cuffietta di lana bianca ed il tutù classico che le lasciava scoperte le esili gambette infantili, eseguiva eleganti evoluzioni su pattini metallici che brillavano come fossero d'argento polito. I suoi movimenti erano aggraziati ed agili, propri di chi ha molta più esperienza e padronanza del proprio apparato muscolare di quanto non sia da attendersi dall'età dimostrata dalla bambina. La sua figuretta sottile, ben delineata dal costumino celeste che l'avvolgeva, si stagliava contro lo sfondo candido della neve che abbondante ricopriva la fontana ed i bordi della vasca dinanzi ad essa. Non ho mai visto un angelo, ma quando essi si mostrano, sono certo che non possono essere più leggiadri, eleganti e sciolti di quella ragazzina nel movimento e nella gestualità.
I pochi raggi di sole che filtravano fra il fitto fogliame degli alberi intorno alla fontana la illuminavano a sprazzi conferendo alla scena una luce d'irreale e di fabuloso mentre la bambina ricamava sul ghiaccio del minuscolo specchio d'acqua ghirigori complessi e luminescenti in toni madreperlacei.
Restai incantato per oltre un quarto d'ora a guardarla, e ad un tratto essa si accorse di me, si voltò nella mia direzione, e mi sorrise. Ricordo ancora il suo radioso sorriso, che l'assenza di un incisivo superiore arricchiva, anziché deturparlo, e rendeva ancora più tenero e dolcemente infantile.
Le sorrisi in risposta ed accennai un applauso dicendo ad alta voce "brava!". Deve avermi capito, perché il suo sorriso si allargò ancora.
D'improvviso, sentii una voce alle mie spalle che chiamava il mio nome: "Engel!"
Mi voltai per riconoscere il proprietario della voce, ed incontrai il viso sorridente di Bill Robinson, dirigente di una grossa Corporation di Los Angeles che frequentava il corso con me.
- "Ma che fai, parli da solo? La vecchiaia è brutta, eh?" mi disse continuando a sorridere .
Gli strinsi la mano, pensando una volta di più che gli americani sono matti. Sudato, con i capelli scompigliati, leggermente ansimante nella fresca aria del mattino, Bill vestiva una tuta da ginnastica con la quale - non era la prima volta che lo vedevo così conciato - faceva jogging quasi tutte le mattine prima delle lezioni, malgrado i suoi non più verdi anni.
Ricambiando il sorriso gli risposi :
- "Non ti ho sentito venire. Ero solo incantato a guardare quella ragazzina che pattina sul ghiaccio: è piccola, ma è davvero brava!"
Mi volsi allo stesso tempo in direzione della fontana, e rimasi come un allocco mentre Bill commentava:
- " Anche peggio, ragazzo mio : hai pure le allucinazioni! Devi farti visitare da uno strizzacervelli”.
Aveva ragione.
Lo specchio gelato dinanzi alla fontana era del tutto deserto, e la sua superficie era liscia e tersa senza che una minima traccia ne rigasse la superficie.
-" Ma... - balbettai - eppure l'ho vista... "
- " Va là - ribatté Bill - forse cominciano a mancarti le tue figlie ed immagini di vederne una solo perché le vorresti vicine a te anche qui".
Pensai che fosse meglio lasciar cadere la cosa, e cambiai discorso chiedendogli se non sentisse freddo, e come mai almeno la domenica non facesse una dormita più lunga del solito.
Chiacchierammo di futilità per due o tre minuti, poi Bill mi lasciò per riprendere il suo jogging prima che il sudore gli si gelasse addosso.
Andato via lui, rimasi qualche minuto solo, dinanzi alla fontana, con la mente piena d'interrogativi senza risposta, guardando e riguardando la superficie della fontana su cui qualche foglia secca degli alberi circostanti cominciava a posarsi delicatamente. No, ne ero certo, avevo visto la bambina, l'avevo ammirata a lungo, e il fatto che non una benché minima traccia dei suoi pattini fosse rimasta impressa sul ghiaccio non significava e non poteva significare che avessi avuto un'allucinazione.
Mi allontanai dalla fontana e dal parco, e continuai per alcune ore a portare negli occhi - come faccio tuttora a venti e più anni di distanza - quella visione dolcissima e, ogni minuto di più, evanescente.
La realtà prese il sopravvento. Le lezioni, i gruppi di lavoro, le conferenze che facevano da corollario al Corso e la vita di ogni giorno con i mille impegni che comportava, mi tennero la mente lontana dalla mia visione per alcune settimane.
Poi, venne il long week-end. Un fine settimana su quattro il fine-settimana cominciava il giovedì pomeriggio per dar modo ai partecipanti al corso che abitavano meno lontano degli altri di tornare a casa per stare un po' con le loro famiglie. D'altronde, l'età media dei partecipanti stessi era tale che la stragrande maggioranza di essi aveva già famiglia.
Il fatto di trovarmi a settemila chilometri dal mio Paese, e l'entità del costo di un passaggio aereo fino in Germania e ritorno, mi escludevano dal numero dei fortunati che potevano godere di quel privilegio, sicché accettai l'invito del Decano della Facoltà ( un pittsburghiano da tre generazioni di rara intelligenza e di ancor più rara cultura, una vera eccezione per lo standard culturale statunitense) ad andare con lui in auto a far visita al fratello in un paesino ad una cinquantina di chilometri dalla città.
Ebbi così modo di vedere anche l'interno della Pennsylvania, i suoi boschi di alberi alti e scuri, quasi tutti pluricentenari, ed il fluire tumultuoso dei fiumi che attraversano lo Stato. Sia il Monongahela che l'Allegheny, che ancora recano i nomi loro dati dalle tribù dalla pelle rossa che abitavano quell'area all'arrivo dei primi coloni americani, confluiscono tumultuosamente a formare il fiume Ohio proprio a Pittsburgh, e la lingua di terra che ne costituisce l'ultima separazione viene detta la Golden Point, la Punta d'Oro. Per tutto il loro corso, che non è poi così lungo né per l'uno né per l'altro, essi presentano una pendenza abbastanza sensibile da renderne veloci e spumeggianti le acque, che si schiantano fragorosamente sulle numerose rocce che ne costellano il letto e levano alti spruzzi gelati. Solo in alcuni tratti, la minor pendenza ne rende più tranquillo lo scorrere, formando in alcuni tratti delle anse più larghe e calme, che nei mesi invernali gelano e si prestano al pattinaggio.
Su una di queste rare anse si trovava il paesino dove viveva il fratello di Bernie, il Decano della Facoltà che mi aveva invitato a questa breve gita.
James, detto Jimmie, si chiamava questo fratello, o meglio, il reverendo James, dato che era pastore di una delle tante sette protestanti che allignano nel Nord America. Una setta battista, se non ricordo male, che in quella zona rurale e forestale degli Stati Uniti aveva messo radici da prima della Rivoluzione e, data la spartana economia locale, vivacchiava dando al suo pastore sì e no il minimo indispensabile alla sopravvivenza.
Arrivammo giusto in tempo per la funzione nella cappella parrocchiale, ed andammo a sederci su una delle poche, consunte panche, dello stesso legno delle pareti, che erano le uniche suppellettili del luogo di culto.
Al termine della funzione, Jimmie abbracciò il fratello prima di uscire sulla soglia a salutare i suoi parrocchiani - che ancora sorridenti per le due o tre battute intelligenti che egli aveva inserito nel sermone domenicale, gli dettero anche abbondanti pacche sulla schiena - e mi presentò alla moglie, Annie. Era, costei, una donna esile, dolce nello sguardo e nei modi, che non mi sono mai spiegato come abbia potuto dargli due figli, due ragazzoni ben piantati che davano anche loro una mano nella cappella - uno suonando l'organo e l'altro raccogliendo le offerte dei fedeli - e che avevo già visto durante la funzione.
Naturalmente, data l'ora, ci invitarono a pranzo, ed attraversando un tratto di bosco arrivammo alla casetta, linda ed ordinata, che a distanza di poche centinaia di metri, nel mezzo di una radura, rappresentava la canonica.
Jimmie sfoderò quel poco di tedesco che aveva imparato a biascicare da un parrocchiano dedito all'alcool, e nel giro di pochi minuti tutti fummo coinvolti in una animata conversazione - a tratti in inglese ed a tratti in tedesco - su argomenti i più disparati e simpatici.
Finito il pasto, frugale anche se nutriente, noi tre uomini andammo in salotto per mandare giù un bourbon ed accendere le nostre sigarette, Annie andò in cucina a rigovernare, ed i due ragazzi salirono a cambiarsi "per la partita". Tornarono con le mazze da hockey ed i caschi sotto un braccio, e gli scarponi coi pattini sotto l'altro, e rammentarono al padre che aveva promesso loro di andarli a vedere giocare.
- "E noi, non ci volete?" chiesi loro.
Si profusero in scuse, e dissero che naturalmente eravamo più che graditi ospiti, e che anzi sarebbe stato per loro gratificante avere altri due tifosi dalla loro parte, poiché la squadra locale non era poi famosa...
Così, dopo qualche altra sorsata del rovente liquore (fatto in casa da uno dei suoi parrocchiani, disse Jimmie) e le ultime boccate di fumo delle nostre sigarette, seguimmo verso il fiume i due ragazzi che si erano già avviati.
L'aria era tersa e ferma. Il silenzio del bosco intorno a noi era rotto ogni tanto dal tonfo della neve che cascava a blocchi dagli alti rami dei pini e degli abeti per confondersi con l'altra che fino a poche ore prima era scesa dolcemente a coprire il suolo. Il canto di un isolato uccello (una cinciallegra, mi dissi) sembrava l’assolo di un virtuoso e si perdeva nella distanza senza essere riecheggiato da alcun ostacolo solido. Il cielo era tornato limpido, luminoso tanto da far male agli occhi, e la pace più completa avvolgeva il mondo intorno a noi.
Dopo un po' che camminavamo, avvertimmo dinanzi a noi il rumore di molte voci e risate, ed al di là di una curva del sentiero vedemmo la riva su cui un centinaio di persone era raccolto ai margini di un tratto gelato dell'ansa del fiume.
Il campo da hockey era, infatti, un tratto dell'ansa che, cintato con una rudimentale barricata di assi di legno, i ragazzi del luogo usavano per le loro domenicali disfide sul ghiaccio contro i loro coetanei dei villaggi vicini.
La partita cui assistemmo fu dunque poco più che una ragazzata, in cui tutti i contendenti dell'una e dell'altra parte facevano del loro meglio per colpire - senza grandi risultati - il dischetto di legno, e questo insisteva per andare per i fatti suoi in tutte le direzioni tranne che in quella giusta.
Ci sgolammo, naturalmente, per incoraggiare i ragazzi del luogo, e a lungo li applaudimmo ogni volta che l'infernale dischetto decideva di sua volontà di andare ad infilarsi in una delle due porte ignorando gli sforzi difensivi del portiere di turno.
Era previsto, mi dissero, che subito dopo la partita seguisse una breve dimostrazione di pattinaggio. Passarono, infatti, alcuni pochi minuti dopo l'ultimo applauso agli eroi del giorno, e da un'auto parcheggiata sulla riva, emerse una figurina in azzurro, col tutù classico ed i capelli raccolti in una cuffietta bianca di lana. Eccola, la mia visione di Shenkley Park! Non riuscii più a contenermi.
- "Ma..." sbottai in direzione di Jimmie.
- "E' mia nipote Lucy, o meglio la nipote di Annie, ed è veramente brava; guardala!"
Ed era veramente brava, come già sapevo da oltre una settimana. La semplicità, l'armonia e la scioltezza dei suoi movimenti di danza sul ghiaccio erano almeno pari all'eleganza del suo scivolare sulla liquida superficie ghiacciata. Nel silenzio ammirato con cui noi tutti seguivamo dalla riva il suo volo da farfalla, solo il fruscio dei pattini sul ghiaccio, e il sibilo della superficie che si scheggiava in una miriade irideggiante di schegge erano percepiti come reali. Il resto era solo favola.
Lentamente, Lucy aumentò la velocità delle sue evoluzioni e il raggio delle curve che compiva, allontanandosi dalla recinzione del campo da hockey verso il fiume che a poche decine di metri faceva vedere le sue acque scure e placide nell'abbacinante luce del pomeriggio.
Una voce di donna ruppe l'incantato silenzio .
- "LUCY, non ti allon.... DIO!"
Ma la tragedia si era compiuta. Il ghiaccio era troppo sottile, in quel punto, per reggere il sia pure piccolo peso di Lucy, e con un sinistro scricchiolio aveva ceduto sotto la bambina lasciando che il suo minuto corpicino fosse accolto dall'abbraccio della gelida acqua del fiume.
Ricordo, come un incubo, la figura della madre di Lucy che si slanciava verso la nera voragine che aveva inghiottito la bambina, ed i ragazzi e tutti gli spettatori della partita che la raggiungevano per trattenerla dallo sprofondare anche lei sotto il ghiaccio sottile. Ricordo che io stesso correvo verso il fiume, scivolando sulle suole di cuoio e avendo negli occhi il sorriso sdentato di quell'altra Lucy, quella della mia visione. E ricordo l'arrivo dei Vigili del Fuoco col motoscafo e le lunghe pertiche, il loro scandagliare il fondo per cercare almeno di recuperare le povere spoglie della bambina.
Non ricordo nulla del nostro ritorno a Pittsburgh, del mio rientro in albergo, della ripresa delle lezioni il giorno dopo, né di ciò che accadde nelle successive due settimane.
La mia memoria è ancora vuota fino al giorno che il Decano mi fece chiamare nel suo studio durante una delle lezioni pomeridiane, per dirmi che avevano trovato il corpo di Lucy, e per chiedermi se volevo andare con lui all'obitorio per salutare Jimmie, Annie e la sorella di quest'ultima convocati colà per il riconoscimento del cadaverino. Gli avevo narrato della mia visione, ed era rimasto molto scosso sia per l'episodio di per sé che per la commozione che rompeva la mia voce nel narrarglielo. Accettai.
Trovammo i tre nella sala d'attesa e con loro entrammo nella sala dalle pareti coperte di candide piastrelle di maiolica su cui si aprivano gli sportelli delle celle frigorifere contenenti i poveri resti degli sventurati che avevano trovato una morte violenta.
Un inserviente che masticava chewing-gum (Dio lo maledica! Dissi fra me e me) trasse verso di sé la lettiga su slitta di uno degli sportelli in basso, e sollevò un telo verdino che copriva un piccolo corpo. E per la terza ed ultima volta rividi la Lucy della mia visione.
Immobile, violacea ancora dal momento della morte per asfissia, e priva ormai dell'eleganza angelica con cui l'avevo vista sfiorare la superficie gelata della fontana e dell'ansa del fiume, Lucy aveva ancora il tutù azzurro e la cuffietta di lana bianca. E fra le labbra dischiuse s’intravedeva ancora il vuoto di un incisivo superiore caduto che non sarebbe stato mai più sostituito.
La guardai solo una volta, e non avrei dovuto. Preferisco ricordare il suo sorriso dolce, infantile rivoltomi dalla fontana di Shenkley Park, che non il vuoto sguardo dei suoi occhi azzurri ancora aperti a guardare senza vedere, irrigiditi nello stupore della morte.
Ecco perché non mi piace più vedere alla televisione le manifestazioni di pattinaggio. Ed ecco perché, davanti a ciò che non riusciamo a spiegarci - e che forse resterà sempre inspiegabile per noi - non posso ancora fare a meno di chiedermi ogni volta :

PERCHE'?

La vita cambia e si rinnova ad ogni secondo che la viviamo. L'ignoto è intorno a noi e dentro di noi. Non mi parlate di noia!

mercoledì 4 marzo 2009

Ritrovata la tomba di Maria Maddalena?



















Boh? Non mi si venga a dire che il volto di Giovanni, nel “Cenacolo” di Leonardo, sia un viso maschile e che Leonardo lo abbia dipinto così perché di tendenze omosessuali.
Vi sono, è vero, nell’opera di Leonardo, dei personaggi con tratti molto ambigui, e tra questi vi è anche il ritratto di S. Giovanni, ritratto che comunque non ha nulla in comune con la rappresentazione fattane nel “Cenacolo” che appare essere un volto prettamente femminile e tra l’altro stranamente somigliante a quello della donna rappresentata nella “Vergine delle rocce”.
Si tratta quindi veramente di Maria di Magdala, quella che alcuni ritengono fosse la sposa di Gesù? Forse, e non mi si venga a dire che la Maddalena è citata solo di sfuggita nei Vangeli perché sappiamo bene che i quattro Vangeli canonici sono stati prescelti, e ampiamente rimaneggiati, dopo averne scartati e distrutti decine di altri: i cosiddetti apocrifi.
Può essere che Leonardo, spirito libero e poco incline al misticismo, possedesse uno di questi vangeli segreti? In questi, di origine gnostica, si legge infatti che Gesù prediligeva la Maddalena e la baciava sulla bocca. Inoltre affidava a lei i segreti più nascosti e la guida dei discepoli. Eccone uno stralcio:

[Si tratta di uno scritto gnostico che fu rinvenuto nel cosiddetto Papiro 8502 di Berlino, di cui si hanno notizie dal 1896, ma che fu pubblicato solo nel 1955. La Maria a cui è attribuito è Maria Maddalena. Questo scritto attribuisce un’importanza fondamentale alla figura di Maria Maddalena, come discepolo che Gesù avrebbe anteposto persino ai suoi apostoli maschi.]
“Andrea replicò e disse ai fratelli: - Che cosa pensate di quanto lei ha detto? Io, almeno, non credo che il Salvatore abbia detto questo. Queste dottrine, infatti, sono sicuramente delle opinioni diverse – Riguardo a queste stesse cose, anche Pietro replicò interrogandoli a proposito del Salvatore: - Ha forse egli parlato in segreto a una donna prima che a noi e non invece apertamente? Ci dobbiamo ricredere tutti e ascoltare lei? Forse egli l'ha anteposta a noi? Maria allora pianse e disse a Pietro: - Pietro, fratello mio, che credi dunque? Credi tu ch'io l'abbia inventato in cuor mio o che io mentisca a proposito del Salvatore? Levi replicò a Pietro dicendo: Tu sei sempre irruente, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come fanno gli avversari. Se il Salvatore l'ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v'è dubbio che il Salvatore la conosca bene, perciò amò lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell'uomo perfetto, formarci come lui ci ha ordinato, e annunziare il vangelo senza emanare né un ulteriore comandamento, né un'ulteriore legge, all'infuori di quanto ci disse il Salvatore. Quando Levi ebbe detto ciò, essi cominciarono a partire per annunziare e predicare. Il vangelo secondo Maria.”

Interessante, vero? Francamente non si capisce perché la chiesa abbia respinto con sdegno l’ipotesi che Gesù fosse sposato. Se era vero Dio e vero uomo perché negare una ipotesi così naturale? E come mai la stessa Chiesa da un lato disprezza la Maddalena e la considera (erroneamente perché la assimila ad un'altra Maria) una prostituta e, dall’altro, la venera come santa sugli altari?
C’è da ricordare peraltro che le antiche leggi della religione ebraica condannavano a morte gli omosessuali. I giovani che, superati i vent’anni non si univano con una donna venivano spiati ed osservati con sospetto. Come mai, quindi, non vi è traccia alcuna di accuse di omosessualità nei confronti di Gesù benché questi avesse ormai circa quarant’anni (questa è la sua probabile età all’atto della crocifissione e non i trentatré anni della tradizione) e frequentasse quasi esclusivamente discepoli maschi?
Non sarebbe stata una ghiotta occasione per Caifa ed i sacerdoti che lo volevano morto? Cosa avvenne della Maddalena dopo la scomparsa di Gesù?
Secondo alcune tradizioni sarebbe fuggita da Gerusalemme e, insieme con altri membri della famiglia, e con Giuseppe di Arimatea si sarebbe rifugiata in Francia ove, alla sua morte, sarebbe stata sepolta. Innumerevoli sono gli scritti, per la maggior parte di pura fantasia, che favoleggiano sulla località segreta ove si troverebbe la tomba della Maddalena, sulla discendenza reale dei suoi figli e sul cosiddetto Santo Graal.
Alcuni autori hanno ritenuto di appuntare le loro ricerche su di uno sperduto paesino francese: Rennes-le-Château. In questo piccolo villaggio che si trova nella regione francese dell'Aude vi è una chiesa molto antica, consacrata ufficialmente nel 1059 a Maria Maddalena.
Sembra incredibile ma questo edificio è stato al centro di intriganti misteri nei quali sono stati chiamati in causa i Templari, i Catari, i Merovingi, Bianca di Castiglia, il fantasioso e probabilmente inesistente Priorato di Sion, il Santo Graal, la Massoneria e chi più ne ha più ne metta.
Alla base di tutto vi è un ipotetico "tesoro" che sarebbe stato ritrovato dal parroco François Bérenger Saunière che resse la locale chiesa di Santa Maddalena dal 1885 al 1909.
L’edificio era praticamente in rovina e Saunière, ne iniziò il restauro grazie ad una donazione di tremila franchi da parte della contessa di Chambord. Durante i lavori di ristrutturazione della parrocchia, eseguiti tra il 1887 e il 1897, il parroco si imbatté in una serie di reperti: sotto una pesante lastra ai piedi dell'altare; sollevata da due muratori apparve l'entrata di una cripta che custodiva un vaso o una cassetta con all'interno degli "oggetti brillanti" (monete d’oro?), inoltre in un comparto segreto all'interno di un pilastro Saunière trovò tre rotoli di antiche pergamene che si favoleggia descrivessero la discendenza della dinastia merovingia di Dagoberto II° e la loro parentela con i discendenti di Gesù. Certo è che dopo il termine di questi lavori Saunière spese ingenti somme, di misteriosa provenienza, per costruire una villa, dei giardini, una balconata panoramica, una torre-biblioteca intestata a Maria Maddalena ed una serra per animali esotici.
Secondo alcune fantasiose ricostruzioni, il tesoro che arricchì Bérenger Saunière non era di natura materiale ma documentale: le pergamene provavano l’incredibile verità della discendenza di Gesù, conosciuta storicamente come dinastia del Sang Real (sangue reale), termine in seguito corrotto in Santo Graal.
Le ricchezze di Saunière sarebbero quindi provenute dal Vaticano, per comprarne il silenzio.
Tra gli innumerevoli curiosi e “cercatori di tesori” che si recano a Rennes-le-Château vi è stato l’incredibile ritrovamento effettuato da due ricercatori, Bruce Burgess e Ben Hammot, i quali analizzando alcuni particolari messaggi simbolici nascosti nelle pitture e nelle sculture all’interno della chiesa hanno scoperto una caverna sotterranea in cui si trova una tomba con un’apparente figura umana ricoperta con un drappo sul quale è dipinta una croce rossa templare.

Chi si cela dietro quel sudario? Una statua? Un cavaliere Templare? Il corpo di Maria di Magdala o, addirittura, quello di Gesù?
Mistero.
Nella cripta si notano inoltre numerosi oggetti semidistrutti e sparpagliati qua e là: una croce di legno, calici, coppe, monete. Ulteriori ricerche hanno portato poi, in altro sito, al rinvenimento di alcune bottiglie sigillate con all’interno dei documenti, alcuni ancora enigmatici, scritti a mano da Bérenger Saunière. Uno di questi, in apparenza dal contenuto devastante, riporterebbe la seguente confessione del sacerdote:
“La resurrezione di Gesù è uno scherzo, è stata Maria Maddalena a portare il suo corpo fuori dalla tomba. I discepoli ingannavano. Più tardi il corpo di Gesù venne scoperto dai Templari e quindi nascosto tre volte. La tomba è qui. Parti del corpo sono salve… I nemici non sono gli eretici, ma la Chiesa di Roma… Ho abbandonato la mia falsa Chiesa e vi ho rinunciato… Ho fatto quello che ho fatto per preservare il segreto. Forse arriverà nel futuro il momento di rivelarlo”
Altra ricerca, effettuata in base alle dichiarazioni di Saunière, avrebbe portato alla scoperta di uno scrigno con una coppa di porcellana, un vasetto per le unzioni, diverse monete antiche ed una fiala con un frammento di pergamena. Questi reperti, esaminati dal British Museum e dal dottor Gabriel Barkay dell’Università di Gerusalemme, risulterebbero databili proprio alla Giudea del I° secolo.
Questa vicenda è stata documentata in un film “The Bloodline” (La linea del sangue) che forse non sarà mai programmato in Italia e del quale è comunque possibile vedere il Trailer.
Ci si domanda se dietro tutto questo non vi sia una astuta operazione commerciale basata su una serie di false prove o se vi siano realmente dei misteri e dei millenari inganni a noi sconosciuti.
Sarebbe molto interessante se il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale) analizzasse scientificamente questa vicenda, veramente degna degli avvincenti documentari di Piero Angela.

giovedì 5 febbraio 2009

Il procione antistupro


Scorrendo le notizie di stampa, mi ha colpito il titolo "Stuprato un frocione". Francamente sono rimasto abbastanza attonito anche per la terminologia alquanto volgare ed offensiva, ma poi ho letto meglio: lo stuprato non era un frocione ma un procione!
Incredibile, ora anche gli animali selvatici sono a rischio stupro? Ecco l'articolo:

The Sun riferisce della disdicevole avventura capitata al russo Alexander Kirilov, di 44 anni.
Ubriaco e in cerca di compagnia, l'uomo ha tentato di stuprare un procione.L’animale, che girovagava nei pressi di un bar, è stato intercettato da Kirilov che ha subito pensato di intrattenersi intimamente con lui. Per niente divertito il procione, con uno scatto felino si è rivoltato e gli ha letteralmente staccato il pene a morsi. Poi riottenuta la libertà, e con un “souvenir” da mostrare agli amici del bosco, si è dileguato.
Il maniaco, anestetizzato dall’alcol ma comunque dolorante, è riuscito a salire in auto ed a recarsi al pronto soccorso.
I chirurghi plastici stanno tentando di salvare il salvabile, ma un amico dell’uomo ha detto al giornale: “Gli hanno comunicato che potranno rimetterlo parzialmente in funzione, ma non possono riattaccare ciò che il procione ha portato via… Quella parte è andata per sempre”.
Da oggi il 44enne russo potrà forse vantarsi delle proprie performance ma di certo non delle dimensioni del suo “compagno di mille avventure”.

Dopo aver letto l'articolo mi sono chiesto: non sarebbe il caso di importare in Italia qualche migliaio di procioni?

mercoledì 22 ottobre 2008

Ipazia

- Sai? Negli scavi archeologici che si stanno facendo lungo la via Campana, nei pressi di Pozzuoli, sono state rinvenute due bellissime statue di antiche divinità greco-romane; purtroppo entrambe acefale.

- Ace...che?

- Acefale, senza testa. Ed è un vero peccato.

- Beh, Perché non cercano meglio? Sai...scava e scava...

- Inutile. Sicuramente sono state spezzate e distrutte dai fanatici cristiani.

- Ma va...e perché avrebbero dovuto farlo?

- Ah, ma tu stai ancora con l'idea dei miti buoni e bravi cristiani perseguitati e uccisi dai cattivi perfidi pagani come Nerone? Ti sbagli di grosso e ti fai influenzare da fantasie, esagerazioni e polpettoni cinematografici.

- Eh, sarà come dici tu, ma le persecuzioni ci sono state.

- In effetti sia gli imperatori che il popolino romano non vedevano di buon occhio questa gente che non venerava l'imperatore e disprezzava gli dei pagani. Spesso venivano considerati dei menagramo e ritenuti responsabili di mancati raccolti o di epidemie. Certamente non erano ben visti ma non vi fu alcun particolare editto contro di loro fino al 249 quando l'imperatore Decio ordinò a tutti i sudditi di onorare gli dei e di offrire pubblici sacrifici.
I cristiani si rifiutarono e questo venne considerato un attentato politico alla sovranità dell'imperatore.
Queste persecuzioni, che avevano soprattutto matrice politica, divennero molto serie con gli editti imperiali di Diocleziano e Galerio del 303 e del 304 che decretavano la distruzione dei luoghi sacri cristiani e l'obbligo di offrire sacrifici agli dèi, pena la condanna a morte.

- Beh, allora i massacri ci furono, avevo ragione io!

- Sì, ma non peggiori di tanti altri episodi del genere, e del resto non durarono moltissimo se consideri che pochi anni dopo, nel 313 l'imperatore Costantino, con l'editto di Milano, decretò la cessazione delle persecuzioni contro i Cristiani, e la loro piena libertà di culto.

- Poveracci...

- Poveracci un corno! Poco dopo fu la Chiesa il cui potere politico-religioso era ormai divenuto imperante a perseguitare gli altri, e specialmente chi ne intralciava il cammino: pagani, eretici, apostati, ebrei, e persino uomini e donne di scienza.
Migliaia di templi vennero distrutti o trasformati in chiese cristiane, migliaia di statue vennero frantumate o decapitate, le perdite di veri e propri tesori furono immense e incalcolabili.

- Ma quelli che erano ancora devoti agli antichi dei o comunque contrari a questa nuova religione che fecero?

- Cercarono di ribellarsi, ma intanto nel 391 l'imperatore Teodosio I° aveva decretato la proibizione di ogni culto pagano: sacrificare nei templi era un delitto di lesa maestà punibile con la morte. Pensa che ad Alessandria d'Egitto che in quell'epoca era una città colta e cosmopolita, popolata da ampie comunità greche ed ebraiche, vi fu una vera e propria rivolta contro il vescovo Teofilo. Questi, mentre stava trasformando in chiesa il tempio di Dioniso, trovò nel corso dei lavori un tempietto segreto ricco di oggetti consacrati agli dei. E che cosa fece? Sfilò per le strade esibendo quei trofei e ridicolizzandoli.

- Beh, certo non è stata una bella azione...

- I pagani, che tra il popolo erano numerosi, non sopportarono quell'affronto e si ribellarono, ne seguirono violenze contro i cristiani ma i pagani furono messi in fuga e costretti ad asserragliarsi nel tempio di Serapide.
Incurante delle raccomandazioni dell'imperatore che lo invitava ad essere indulgente, Teofilo pensò bene di distruggere il Serapeo e l'annessa biblioteca fino alle fondamenta.

- Perbacco!, ma... in seguito le cose sarebbero migliorate...no?

- No. Peggiorarono. Al vescovo Teofilo, morto nel 412, successe il nipote Cirillo, un tipo violento ed autoritario che, tra le altre cose, distrusse la colonia ebraica di Alessandria e trasformò tutte le sinagoghe in chiese. Inoltre ingaggiò una feroce disputa cristologia contro Nestorio, patriarca di Costantinopoli e riuscì a farlo scomunicare corrompendo, a quanto si dice, monaci e funzionari di corte.
Entrò in conflitto persino con Oreste governatore imperiale della città e fece anche assassinare orrendamente Ipazia nel 415.

- Ipazia? Mai sentito nominare, chi è?

- Ignorante! Ipazia era una donna, una donna di quarantacinque anni molto bella.
Forse la più grande astronoma, filosofa e matematica tra le donne dell'antichità!
Era di origine greca e appartenente alla corrente neoplatonica. Di grandissima sapienza insegnava pubblicamente ed era particolarmente stimata dagli uomini di scienza e dai poeti. Era adorata dai suoi allievi alcuni dei quali si innamorarono perdutamente di lei.
Sinesio, vescovo di Tolemaide, fu uno dei suoi tanti allievi e le scrisse diverse lettere di simpatia ed ammirazione chiedendole anche istruzioni su come poter costruire un astrolabio simile a quello ideato da lei.

- Insomma era anche una specie di ingegnere...

- Sì, è vero. Infatti oltre all'invenzione dell'astrolabio le vengono anche attribuite le invenzioni di una sorta di planisfero e di un orologio ad acqua.
Ma la sua passione era l'astronomia e la filosofia e per oltre vent'anni insegnò agli alessandrini le opere di Platone e di Aristotele oltre a quelle di Euclide, Archimede e Diofanto.
Tenuta in grande considerazione dai suoi concittadini Ipazia ebbe forse tra i suoi discepoli il governatore Oreste che spesso ricorreva a lei e chiedeva il suo parere su questioni di carattere pubblico.

- Ma perché Cirillo la fece uccidere? E come?

- Cirillo era un fanatico che non poteva sopportare l'insegnamento filosofico e pagano di Ipazia, la sua importanza nella vita cittadina e la sua amicizia col governatore. Istigò quindi un gruppo di monaci suoi seguaci, una specie di milizia personale, i quali catturarono Ipazia mentre rientrava a casa, la trascinarono dentro la chiesa costruita sul Caesareion e la massacrarono sadicamente scorticandola fino alle ossa. Quindi ne trascinarono i resti altrove e li bruciarono.

- Oh santa polenta... e Oreste, il governatore, non fece nulla?

- Sì, Oreste fece tutto il possibile: denunziò l'assassinio di Ipazia all'imperatore e pretese un inchiesta.
Venne inviato ad Alessandria il magistrato Edesio per indagare sull'accaduto, ma Cirillo non faticò a corromperlo forte anche dell'appoggio di Pulcheria, sorella dell'imperatore Teodosio II°, la quale era una sua grande devota.
La conclusione fu che Cirillo e i suoi monaci rimasero impuniti.

- Incredibile! Voglio sperare che la Chiesa, in seguito, l'abbia almeno condannato.

- Come no! ... Infatti il 28 luglio 1882 Cirillo di Alessandria, venerato dalla Chiesa copta, da quella ortodossa e da quella cattolica, è stato proclamato... santo e dottore della Chiesa.